Andrea Giovene scrisse la sua "Autobiografia di Giuliano di Sansevero, ora riproposta da edizioni Elliot ( pp.950 euro 25) nel 1965, quando aveva 60 anni. Cinque volumi di manoscritto stampati a spese proprie e alla ricerca disperata di un editore. Gli occhi del filologo e scrittore finlandese Edvard Gummerus colsero la qualità dell'opera e ne compresero il valore, che si rispecchiò in un successo avulso dai confini geografici.
Recensioni ricche di elogi da testate quali il New York Times e l'Observer erano solo l'appendice dell'entusiasmo che il mondo intellettuale mondiale aveva espresso per un caso letterario del 900. Andrea Giovene ha descritto la ricerca instancabile della bellezza negli aspetti più difficoltosi della vita, e questo può essere considerato il suo segreto.
Nell' "Autobiografia di Giovanni di Sansevero " c'è il gioco di specchi delle personalità messe in scena dall'autore. Perchè Giuliano di Sansevero è un personaggio di fantasia, ma, come ,Giovene, è nato a Napoli all'inizio del novecento ed è, al pari di lui, un rappresentante della nobiltà borbonica, diretti spettatori entrambi della decadenza impietosa che ha colpito dopo la grande guerra, l'orgoglio e il mondo della cultura cortese italiana.
Giovene fa parlare Giuliano che a sua volta parla dell'autore e di sè.
Sarà per questo che ogni immagine, ogni descrizione, conserva il sapore della pura verità e il profumo dei ricordi.
A partire dalla rappresentazione luminosa dell'infanzia, Giuliano, nella solitudine imposta da un padre accecato dalle coercizioni di un codice troppo ammuffito per rivelare la sua effettiva utilità, dipinge in particolari netti un bambino dall'intelligenza vivace e attenta..
I saloni grandi e scuri, i giardini silenziosi arrampicati sulle case della polverosa Napoli di inizio secolo, fanno da cornice ai racconti non solo dei primi anni di vita, ma sono il tempio dei ricordi di Giuliano a cui si abbandonerà quando da adulto, dopo aver voltato le spalle alla vita che il padre aveva scelto per lui, cercherà suggerimento e conforto nelle sue infinite peregrinazioni.
Tutto parte dall'albero Genealogico, quello esposto nel salone della casa paterna con fierezza borbonica tra i rami infelici di generazioni moralmente schiave della casata. Di fronte all'Albero, fin da bambino, Giuliano provava il senso di repulsione tipico di chi preferisce vedere le cose da lontano, senza parteciparvi, con dignitoso, rigoroso distacco.
La vita in famiglia, il piccolo erede, l'aveva in qualche modo evitata, all'inizio non per sua scelta, vedendosi costretto a studiare fin dai nove anni tra le oppressioni dei monaci.
Quando tornò non riuscì più a tollerare quel coinvolgimento e il senso di appartenenza che la stirpe si proponeva di esercitare su di lui, e si chiuse nella solitudine dei libri, trascorrendo giornate apatiche a osservare le variazioni cromatiche dei fiori, ad ascoltare il suono della pioggia che batteva sulle pietre in giardino.
Non tollerava la falsità che la vita mondana pretendeva con tenacia da una famiglia segretamente distrutta dal sogno dei tempi che erano.
La madre Annina di sangue provenzale, annientò la propria personalità per assoggettarsi completamente al padre Gian Luigi, orgoglioso e miope, il quale assisteva inerme alla rovina dei beni ereditati da secoli di sangue blu.
Fu così che il giovane, appena diciannovenne, si convinse ad uscire dalla porta di casa, e da Napoli, per la prima volta in vita sua. Da lì iniziò la vita vera, fatta di espedienti, di incontri, di personaggi fondamentali per qualche periodo e che poi spariscono nel nulla sostituiti da altri.
Di loro , come del resto dei larghi divani napoletani su cui il fanciullo giocava, restava l'esperienza.
Ricorrendo ad una prosa musicale dalla metrica perfetta, Giovene dà vita all'uomo nascosto che guarda e non parla, vive e riedifica il vissuto, cerca la via d'uscita più silenziosa ai problemi del reale.
In un'esistenza sconvolta dai continui spostamenti il protagonista si interroga su se stesso cercandolo nell'altro da sè che mano a mano lo ha inconsapevolmente trasformato, conferendo ad un'esistenza umile l'onestà del ricordo, le così dette "sensazioni sottili" :
" Sono movimenti quasi impalpabili dell'animo, e che si ritrovano talvolta al mutare delle stagioni, al ritorno di certi sentori, di certe luci, e che appena riconosciuti subito, nuovamente, si perdono.
Eppure quello è il vero fondo di noi stessi."
Ciao Antonella,ti ho risposto alla mail,scusa per il ritardo,post fantastico,ma devo rileggerlo on più calma,perchè oggi è un delirio,scusami!!!...una abbraccio
RispondiEliminaCiao Audrey, ho letto la mail e ti ho risposto. Sì, se hai voglia rileggilo con calma, è un libro molto interessante. Un abbraccio a te.
RispondiEliminaAntonella