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sabato 23 gennaio 2016

Oriana Fallaci: Un Uomo






È il 1° maggio del 1976 quando Alexandros Panagulis detto Alekos, eroe solitario nella lotta greca contro la tirannia e il Potere, muore tragicamente a causa di un «sospetto» incidente stradale.
Per partecipare al funerale, milioni di persone si accalcano per le strade di Atene al grido «Zi, zi, zi!, Vive, vive, vive». Si apre così, Un uomo, si apre dalla conclusione, dalla fine della vita di Alekos e della storia d’amore con Oriana.
L’incipit del libro, di una bellezza struggente, rappresenta certamente una delle vette letterarie raggiunte dalla Fallaci. Dopo il flash sul funerale, la narrazione riprende da qualche anno addietro, e il lettore rivive con Oriana il crollo di Panagulis, a partire dal suo tentativo di uccidere il tiranno Papadopulos e dal conseguente arresto.









Mantenendosi saldamente in bilico tra romanzo e reportage, la Fallaci narra la lotta personale di Alekos contro la tirannia, il suo disperato tentativo di fuga e l’inevitabile l’arresto – violento ed emblematico della rigidità del regime greco –, soffermandosi a lungo sulla detenzione, le costanti torture fisiche e psicologiche patite, il castigo esemplare inflitto al ribelle.
Condannato a morte infinite volte, era stato graziato infinite volte; torturato con barbarie indicibili, aveva resistito senza parlare, senza cedere alle minacce; e intanto la sua fama si era diffusa non soltanto all’interno dei confini greci e il regime non riusciva a trovare uno stratagemma per eliminarlo senza destar sospetti nell’opinione pubblica. È così che Alekos Panagulis, diventato ormai il paladino della resistenza greca, si era trasformato in un vero e proprio eroe del suo popolo.









Ma col tempo il popolo dimentica gli eroi, e «i suoi aguzzini» ben lo sapevano: dopo parecchi cambi di prigione e altrettanti tentativi di fuga, dopo mesi di sofferenze e innumerevoli scioperi della fame, per Alekos era stato costruito un carcere personalizzato, di super-sicurezza: Boiati. Rinchiuso per anni al buio in pochi metri quadrati, vittima della mancanza di cibo e di terribili condizioni igieniche, Alekos era forse impazzito? Le immagini disegnate dalle poesie che scriveva sui rarissimi pezzi di carta che gli capitavano sotto mano rasentavano forse la follia, o nel suo esilio forzato aveva trovato la forza sufficiente per progettare la vendetta e mantenersi sano di mente?
Oriana Fallaci, che dopo la scarcerazione lo incontrerà per un’intervista e vivrà con lui anni di amore, deliri e ossessioni, racconta in questo libro il periodo più bello e forse più tormentato della sua vita. Un amore profondo, viscerale, che si intreccia a una battaglia né pubblica né privata, alla ricerca disperata della libertà portata avanti da un eroe da tragedia greca, un sognatore inguaribile, forse soltanto un uomo.






Per conoscerlo un po'

Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano. Infatti non si alzava da esseri umani, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio, si alzava da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che a mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche contratte, aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi allungato i tentacoli nelle strade adiacenti intasandole, sommergendole con l’implacabilità della lava che nel suo straripare divora ogni ostacolo, assordandole con il suo zi, zi, zi. Sottrarsene era illusione. Alcuni tentavano, e si chiudevano nelle case, nei negozi, negli uffici, ovunque sembrasse di trovare un riparo, non udire almeno il ruggito, ma filtrando attraverso le porte, le finestre, i muri, esso gli giungeva ugualmente agli orecchi sicché dopo un poco finivano con l’arrendersi al suo sortilegio. Col pretesto di guardare uscivano, andavano incontro a un tentacolo e ci cadevano dentro, diventavano anche loro un pugno chiuso, un volto distorto, una bocca contratta. Zi, zi, zi! E la piovra cresceva, si spandeva in sussulti, a ciascun sussulto altri mille, altri diecimila, altri centomila. Alle due del pomeriggio erano cinquecentomila, alle tre un milione, alle quattro un milione e mezzo, alle cinque non si contavano più. Non venivano soltanto dalla città, da Atene. Venivano anche da lontano, dalle campagne dell’Attica e dell’Epiro, dalle isole dell’Egeo, dai villaggi del Peloponneso, della Macedonia, della Tessaglia: coi treni, coi battelli, con gli autobus, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio prima che la piovra li inghiottisse, contadini e pescatori con l’abito della domenica, operai con la tuta, donne coi bambini, studenti. Il popolo insomma. Quel popolo che fino a ieri t’aveva scansato, lasciato solo come un cane scomodo, ignorandoti quando dicevi non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere. Ora ti ascoltavano, ora che eri morto. Dirigendosi verso la piovra portavano il tuo ritratto, cartelli di minacce e di sfida, bandiere, ghirlande di alloro, corone a forma di A, di P, di Z, A per Alekos, P per Panagulis, Z per zi, zi, zi. Quintali di gardenie, garofani, rose. E faceva un caldo atroce quel mercoledì 5 maggio 1976, il puzzo dei petali cotti appestava, mi toglieva il respiro quanto la certezza che tutto ciò non sarebbe durato che un giorno, poi il ruggito si sarebbe spento, il dolore si sarebbe dissolto nell’indifferenza, la rabbia nell’ubbidienza, e le acque si sarebbero placate morbide molli obliose sul gorgo della tua nave affondata: il Potere avrebbe vinto ancora una volta. L’eterno Potere che non muore mai, cade sempre per risorgere dalle sue ceneri, magari credi di averlo abbattuto con una rivoluzione o un macello che chiamano rivoluzione e invece rieccolo, intatto, diverso nel colore e basta, qua nero, là rosso, o giallo o verde o viola, mentre il popolo accetta o subisce o si adegua. Per questo sorridevi quel sorriso impercettibile, amaro e beffardo?





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mercoledì 11 marzo 2015

Lettera a un bambino mai nato




Nel 1975 Oriana Fallaci pubblica Lettera ad un bambino mai nato,
libro di grandissima attualità ancora oggi, condensa in poche pagine il fondamento stesso dell’essere donna, di avere il potere di dare o negare la vita. Già nella dedica la Fallaci anticipa le dolorosissime tematiche che sta per affrontare:

A chi non teme il dubbio
a chi si chiede i perché
senza stancarsi e a costo
di soffrire di morire
A chi si pone il dilemma
di dare la vita o negarla
questo libro è dedicato
da una donna
per tutte le donne

Alla scoperta di essere incinta una donna non è mai abbastanza preparata:

  «Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi. È stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata. Mi si è fermato il cuore».

Così inizia il monologo della madre alla vita in nuce che porta in grembo. Non sa nulla di quel bambino, sa soltanto che è sangue del proprio sangue, e che dipenderà in tutto e per tutto dalle sue scelte.
Ma il fatto che da noi si origini un’altra vita non è cosa da poco; il senso di responsabilità si fa da subito enorme, diventa un fardello troppo pesante, e dà il via a una catena di riflessioni che, partendo dall’origine dell’esistenza, prendono traiettorie impensabili, e possono addirittura spingere a vergognarsi del proprio egoismo.
Prima di tutto, se il bambino potesse scegliere preferirebbe nascere crescere soffrire morire, o invece non rinuncerebbe mai al limbo felice da cui è stato generato? Nascere è davvero «meglio di non nascere»? E se il mondo, così irto di ostacoli, non gli piacesse? Non si sarebbe trattato allora di un’imposizione, una spietata violazione? 
Dall’altra parte, anche l’individualità della donna sarebbe seriamente minata dalla nascita di un bambino; dovrebbe rinunciare a quella libertà che ha inseguito per tutta la vita, e con essa all’attività professionale, alla possibilità di decidere senza impedimenti. L’unico modo per proseguire sulla propria strada, archiviare il problema, consiste nell’annullarlo? E non si tratta forse, anche in questo caso, di un’atroce prevaricazione?








" Mi son sempre posta l’atroce domanda: e se nascere non ti piacesse? E se un giorno tu me lo rimproverassi gridando “Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo, perché mi ci hai messo, perché?”. La vita è una tale fatica, bambino. È una guerra che si ripete ogni giorno, e i suoi momenti di gioia sono parentesi brevi che si pagano un prezzo crudele. Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via, come faccio a intuire che non vuoi essere restituito al silenzio? Non puoi mica parlarmi. La tua goccia di vita è soltanto un nodo di cellule appena iniziate. Forse non è nemmeno vita ma possibilità di vita. Eppure darei tanto perché tu potessi aiutarmi con un cenno, un indizio. La mia mamma sostiene che glielo detti, che per questo mi mise al mondo.
La mia mamma, vedi, non mi voleva. Ero incominciata per sbaglio, in un attimo di altrui distrazione. E perché non nascessi ogni sera scioglieva nell’acqua una medicina. Poi la beveva, piangendo. La bevve fino alla sera in cui mi mossi, dentro il suo ventre, e le tirai un calcio per dirle di non buttarmi via. Lei stava portando il bicchiere alle labbra. Subito lo allontanò e ne rovesciò il contenuto per terra. Qualche mese dopo mi rotolavo vittoriosa nel sole, e se ciò sia stato bene o male non so. Quando sono felice penso che sia stato bene, quando sono infelice penso che sia stato male. Però, anche quando sono infelice, penso che mi dispiacerebbe non essere nata perché nulla è peggiore del nulla. Io, te lo ripeto, non temo il dolore. Esso nasce con noi, cresce con noi, ad esso ci si abitua come al fatto d’avere due braccia e due gambe. Io, in fondo, non temo neanche di morire: perché se uno muore vuol dire che è nato, che è uscito dal niente. Io temo il niente, il non esserci, il dover dire di non esserci stato, sia pure per caso, sia pure per sbaglio, sia pure per l’altrui distrazione. Molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio, perché? Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso, perché muoia ammazzato alla guerra o da una malattia? E negano la speranza che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra. Forse hanno ragione loro. Ma il niente è da preferirsi al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l’esclamare che nascere è meglio di non nascere. Tuttavia è lecito imporre tale ragionamento anche a te? Non è come metterti al mondo per me stessa e basta? Non mi interessa metterti al mondo per me stessa e basta. Tanto più che non ho affatto bisogno di te. "





venerdì 20 febbraio 2015

L'Oriana di Rivombrosa




C'era da aspettarselo... a un certo punto mi son anche chiesta se non l'abbiano fatto
 apposta a banalizzare così la grande figura e la grande forza della Fallaci, e sì, anche quella 
di Panagulis, privati entrambi di tutte le caratteristiche che li hanno resi grandi ed immortali.
Penosa a dir poco l'interpretazione della Puccini.








Gli spettatori di RAI 1 lunedì e martedì sera hanno incontrato, come mi aspettavo, i toni 
melodrammatici 
e un po' caricaturali  tipici della fiction all'italiana. Come già detto mi aspettavo la scarsa profondità d'espressione e la mancanza di forza di carattere sul bel viso della Puccini. Ero preparata alla 
semplificazione che gli autori di casa nostra amano riservare al grande pubblico, forse perchè
pensano che sia troppo stupido per capire altro.
E purtroppo mi aspettavo anche l'ennesima edulcorazione, l'ennesima mannaia calata sul pensiero della Fallaci. Anche se, alla fine, speravo tanto che non fosse così.









Non è andata così e forse non poteva andare diversamente, visto che a coprodurre la fiction è la 
Fandango di Domenico Procacci, produttore molto amato dai democratici per bene.
E a firmare la sceneggiatura sono Rulli e Petraglia, i gran visir della sinistra cinematografara.









Dunque il pubblico ha visto l'Oriana innamorata di Alekos Panagulis, ma senza il grande travaglio e le grandi sofferenze che questo amore ha causato. Ha visto quella in prima linea in Vietnam con l'elmetto in capo, anche se rappresentata in modo superficiale, insomma non posso non dirlo, quella Fallaci lì sembrava la Vispa Teresa.
E per fortuna ha visto anche quella che non si fece intimidire dall'ayatollah Khomeini. Perchè difendere le donne va bene ma criticare la religione musulmana è proibito.
E però, anche qui, quella scena del velo a me onestamente è sembrata un po' caricaturale, con una Puccini completamente fuori parte...ben altra forza e vigore e anima e mente avevo trovato leggendo le interviste della Fallaci.










Abbiamo visto la scena di una giovane Fallaci che incontra una versione più anziana di se stessa
all'indomani dell'11 settembre e " quasi non riconosce la se stessa avanti negli anni perchè le appare integralista nella sua battaglia contro l'islam, le contesta di pensare che tutti i musulmani sono terroristi, quando è stata a contatto con loro e sa che non è vero.. Ma l'altra rivendica il diritto di dire, dopo l'11 settembre, di odiare con tutte le sue forze la jihad"








Però non abbiamo sentito le parole della Fallaci tratte dai libri come  La forza della Ragione.
Allo spettatore non è stato raccontato nulla degli insulti che ricevette. delle minacce, delle irrisioni,, dei cantanti come jovanotti che la accusavano di amare la guerra perchè le ricordava i tempi in cui era " giovane e bella ". Gli spettatori non hanno sentito le sue grida di rabbia e di dolore per le sorti dell'Occidente. Urla feroci, appunto, estreme quanto volete. Ma provenienti dal fondo del cuore, parte integrate del suo pensiero, che è ingiusto e vergognosamente offensivo bollare come i deliri di una vecchia pazza malata.
La scena che racchiude tutto il pensiero della Fallaci dopo l'11 settembre dura quattro minuti, dalle 22,47 alle 22,51...vergognoso!









Ancora una volta Oriana è etichettata come una Cassandra e le sarà tappata la bocca.
Lo sapevo, lo sapevamo tutti perchè da anni si vedono avvoltoi in circolo sopra la sua eredità culturale. Le sue opere sono state ripubblicate da Rizzoli con prefazioni affidate a sole persone di sinistra. Nello spettacolo teatrale che le ha dedicato Monica Guerritore ( leggi Qui ), i giorni della rabbia e dell'orgoglio sono messi in scena come se si trattasse di un attacco di delirium tremens. E adesso la fiction. che al solito ne banalizza la figura e che per l'ennesima volta sputa su alcuni libri da lei accuditi e amati come figli.









Nel frattempo le profezie della Cassandra fiorentina si sono avverate, Questo scialbo sceneggiato esce
dopo gli attentati a Charlie Hebdo e i massacri di Parigi. Chissà che ne avrebbe scritto la Fallaci, che fu accusata di islamofobia proprio come il francese Michel Houellebecq, ora costretto a vivere sotto protezione. Fu vilipesa e maltrattata la Fallaci, perchè osò affrontare di petto l'islam. Si permise di proferire le proprie idee e prese a sberle l'Europa molliccia e sottomessa. Dedicò gli ultimi anni della sua vita a questa lotta. E ora che finalmente le dedicano una fiction, tutto questo viene tolto, al pubblico si offre di lei una visione islamicamente corretta, buona per le coscienze pulite progressiste, una sorta di " Oriana di Rivombrosa " da madamine svenevoli. Peggio, decisamente peggio di quello che avevo immaginato.









Fortuna che la Fallaci televisiva si può spegnere: sullo scaffale ci sono ancora i suoi libri pronti per essere sfogliati.
Tutti, come li ha voluti e amati lei.





( Immagini dal web )

sabato 27 settembre 2014

Oriana Fallaci / Intervista con la Storia




Gli anni Sessanta e Settanta vedono Oriana in prima linea sui fronti più caldi del mondo: il Vietnam, piazza delle Tre Culture a Città del Messico, Detroit sconvolta dalla rivolta dei neri, la terribile guerra indo-pachistana, la resistenza greca al regime dei Colonnelli, il Medioriente e il Sudamerica.
La Fallaci giornalista è ovunque, e come un tarlo fa di tutto per vivere «dentro la Storia. Vivere la Storia nell’attimo stesso in cui essa si svolge. Testimoniare le nefandezze della guerra e le porcherie della pace». 
Per capirne i meccanismi più segreti incontra e intervista senza sconti tutti i politici più in vista – e di conseguenza più intoccabili – del mondo, i personaggi «che avendo vinto la lotteria del potere decidono il nostro destino».







Dal capo della CIA William Colby a Yassir Arafat, dall’intervista contestatissima in cui il consigliere della sicurezza statunitense Henry Kissinger avrebbe affermato – e poi negato – di sentirsi come «un cowboy solitario» alla guida dell’America e del mondo, a quella all’Iman Khomeini, in cui Oriana si tolse polemicamente il chador definendolo «stupido cencio da medioevo»: passando per l’incontro con il generale Giap, Pietro Nenni, Golda Meir, il suo compagno Alekos Panagulis, Ali Bhutto, Hussein di Giordania, Nguyen Van Thieu, Indira Gandhi e tanti altri, la tenacia e la passione della Fallaci danno vita a documenti eccezionali che condannano spietatamente il potere, spronando alla disubbidienza e a un’incondizionata lotta per la libertà.






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Per conoscerlo un po'



" Questo libro non vuol essere qualcosa in più di ciò che è: vale a dire una testimonianza diretta su ventisei personaggi politici della storia contemporanea. Non vuole promettere nulla in più di ciò che promette: vale a dire un documento a cavallo tra il giornalismo e la storia. Però non vuole presentarsi nemmeno come una semplice raccolta di interviste per gli studiosi del potere e dell’antipotere. Io non mi sento, né riuscirò mai a sentirmi, un freddo registratore di quel che ascolto e che vedo. Su ogni esperienza professionale lascio brandelli d’anima, a quel che ascolto e che vedo partecipo come se la cosa mi riguardasse personalmente o dovessi prender posizione, (infatti la prendo, sempre, in base a una precisa scelta morale), e dai ventisei personaggi non mi recai col distacco dell’anatomista o del cronista imperturbabile. Mi recai oppressa da mille rabbie, mille interrogativi che prima di investire loro investivano me stessa, e con la speranza di comprendere in che modo, stando al potere o avversandolo, essi determinano il nostro destino. Per esempio: la storia è fatta da tutti o da pochi? Dipende da leggi universali o da alcuni individui e basta?
È un vecchio dilemma, lo so, che nessuno ha risolto e nessuno risolverà mai. È anche una vecchia trappola in cui cadere è pericolosissimo perché ogni risposta porta in sé la sua contraddizione. Non a caso molti rispondono col compromesso e sostengono che la storia è fatta da tutti e da pochi, che i pochi emergono fino al comando perché nascono al momento giusto e sanno interpretarlo. Forse. Ma chi non si illude sulla tragedia assurda della vita è portato piuttosto a seguire Pascal quando dice che, se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, l’intera faccia della terra sarebbe cambiata; è portato piuttosto a temere ciò che temeva Bertrand Russell quando scriveva: «Lascia perdere, quel che accade nel mondo non dipende da te. Dipende dal signor Krusciov, dal signor Mao Tse-tung, dal signor Foster Dulles. Se loro dicono “morite” noi morremo, se loro dicono “vivete” noi vivremo». Non riesco a dargli torto. Non riesco a escludere insomma che la nostra esistenza sia decisa da pochi, dai bei sogni o dai capricci di pochi, dall’iniziativa o dall’arbitrio di pochi. Quei pochi che attraverso le idee, le scoperte, le rivoluzioni, le guerre, addirittura un semplice gesto, l’uccisione di un tiranno, cambiano il corso delle cose e il destino della maggioranza.
Certo è un’ipotesi atroce. È un pensiero che offende perché, in tal caso, noi che diventiamo? Greggi impotenti nelle mani di un pastore ora nobile ora infame? Materiale di contorno, foglie trascinate dal vento? E per negarlo abbracci magari la tesi dei marxisti secondo cui tutto si risolve con la lotta di classe: la-storia-la-fanno-i-popoli-attraverso-la-lotta-di-classe. Però presto ti accorgi che la realtà quotidiana smentisce anche loro, presto obbietti che senza Marx non esisterebbe il marxismo (nessuno può dimostrare che, se Marx non fosse nato o non avesse scritto Il capitale, John Smith o Mario Rossi l’avrebbero scritto). E sconsolato concludi che a dare una svolta anziché un’altra son pochi, a farci prendere una strada anziché un’altra son pochi, a partorire le idee, le scoperte, le rivoluzioni, le guerre, a uccidere i tiranni son pochi. Ancor più sconsolato ti chiedi come siano quei pochi: più intelligenti di noi, più forti di noi, più illuminati di noi, più intraprendenti di noi? Oppure individui come noi, né meglio né peggio di noi, creature qualsiasi che non meritano la nostra collera, la nostra ammirazione, la nostra invidia? "









lunedì 1 settembre 2014

Oriana Fallaci disse: " Trattare non si può "





" Sveglia gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d'andar contro corrente
o d'apparire razzisti ( parole oltretutto impropria perchè il discorso non è su una razza
ma su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata all'Inverso







(...) accecati come siete dalla miopia e dalla cretineria del Politically Correct, non capite o 
non volete capire che qui è in atto una guerra di religione (...) Una guerra che forse non mira alla 
conquista del nostro territorio ( forse? ), ma certamente mira alla conquista delle nostre anime:
alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà, all'annientamento (... ) del nostro modo
di pregare e non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci...







Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte
la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare,
a rendere un po' più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto







Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale,
i nostri valori, i nostri piaceri...(...). Cannoneggiate dalla nostra misericordia, dalla nostra 
debolezza, dalla nostra cecità, dal nostro masochismo, le mura delle nostre città
sono già cadute.







(...) E se non stiamo attenti, se restiamo inerti, troveranno sempre più complici.
Diventeranno sempre di più, pretenderanno sempre di più, otterranno sempre di più,
spadroneggeranno sempre di più. Fino a soggiogarci completamente.
Fino a spegnere la nostra civiltà.






Ergo parlare con loro è impossibile,. Ragionarci è impensabile. Cullarci nell'indulgenza
o nella tolleranza o nella speranza, un suicidio.
E chi crede il contrario è un illuso.
( Oriana Fallaci,La Rabbia e l'Orgoglio, 2001 )




( immagini dal web )

mercoledì 9 aprile 2014

Oriana Fallaci / Niente e così sia





" Per quasi otto anni ho fatto il corrispondente di guerra in Vietnam.
Niente e così sia è il diario del primo anno che trascorsi laggiù
Quello che vide la battaglia di Dak To, l'offensiva di Tet, l'assedio di Saigon,
 e che per me si concluse altrove.
Cioè nella strage di Città del Messico dove rimasi gravemente ferita.
So che è stato definito un libro brutale, spietato, disperato. E forse lo è.
Ma io volevo soltanto raccontare la guerra a chi non la conosce."
( Oriana Fallaci )






Le riflessioni della Fallaci prendono spunto in questo libro da un’innocente domanda della sorellina Elisabetta: «La vita, cos’è?».
È il novembre del 1968 alla vigilia della partenza, e questo interrogativo la accompagna durante il lungo viaggio verso il Vietnam. All’arrivo a Saigon l’atmosfera è sospesa, surreale: del conflitto si sentono soltanto vaghi echi lontani, e più che in un Paese in piena guerra sembra di trovarsi in un Paese che dalla guerra è appena uscito.





L’Agence France Press di François Pelou sembra l’unico tramite tra quel microcosmo protetto e il resto del Vietnam; per quanto confuse, le notizie arrivano da ogni capo del Paese, e per la Fallaci e Moroldo, fotografo e compagno di viaggio, la guerra comincia da Dak To.
Bombardamenti, imboscate, attacchi incrociati ma soprattutto tanta paura: paura di morire, di sbagliare anche una sola minuscola mossa, che il «nemico» sia più rapido o più lucido nel momento della verità. 
«Chi dice di non avere paura alla guerra è un cretino o un bugiardo»
 asserirà in un incontro/intervista con Lucia Annunziata e Carlo Rossella pubblicato nel 2002 su «Panorama». «Guarda, alla guerra si ha sempre paura. Qualsiasi militare, di qualsiasi razza o nazione, te lo dirà.»  Ma proprio in Vietnam comincia «ad amare il miracolo d’essere nata».






Testimone di scontri atroci e di una violenza che spesso travalica ogni limite etico, la Fallaci dà vita a un reportage straordinario che tra le sue mani, giorno dopo giorno, si trasforma in un vero e proprio romanzo; in esso, oltre al resoconto dei fatti, propone un’analisi dell’animo umano, unendo il suo punto di vista alla pluralità di esperienze che i soldati degli opposti schieramenti le riferiscono nel corso di semplici chiacchierate o attraverso documenti preziosissimi (come lo straziante diario di un vietcong). 
Il Vietnam, Dak To, Saigon, americani e vietcong diventano una parte di sé dalla quale non può più prescindere. 






Sarà costretta a lasciare il Vietnam il 19 dicembre, ma «approfittando» dell’offensiva del Tet vi farà ritorno dopo neanche due mesi passati a New York. La guerra l’ha stregata, il mondo le appare vuoto e noioso, e il desiderio di capire gli uomini, partendo dal pascaliano 
«l’uomo non è né angelo né bestia, è angelo ed è bestia», 
la riporterà a quella prima linea, alla sfida cui non rinuncerà per l’intera vita.






Oltre trent’anni dopo svelerà il motivo reale di quel ritorno, della necessità viscerale di partecipare in prima persona alla «più bestiale prova di idiozia della razza terrestre»: «impegnata com’ero a condannare la guerra, della guerra io ho sempre raccontato gli orrori e basta. Non ho mai avuto la forza di confessare il fascino oscuro, la seduzione perversa, che essa esercita [...]. Una seduzione, Dio mi perdoni, che nasce dalla sua vitalità. La vitalità di quella sfida, appunto. [...] io non mi sono mai sentita così viva come quando, vinta la sfida con me stessa, viva sono uscita da un combattimento anzi da una guerra».






Per conoscerlo un po'



20 novembre mattina. Non è facile. La paura sta dentro di me, mi ghiaccia i piedi, e le mani, e non mi abbandona. Era quasi scomparsa mentre andavamo all’aeroporto, forse perché mi sentivo eccitata, ma è riapparsa appena siamo saliti sul cargo militare che ci avrebbe condotto a Pleiku: prima tappa per raggiungere Dak To. Era un grande cargo, un C130. Trasportava ottanta soldati diretti alla zona del fuoco, i soldati se ne stavano lì col fucile ritto fra le gambe, il volto chiuso in una rassegnata tristezza, e non ti dedicavan neppure un sorriso, uno sguardo curioso. Qualcuno dormiva, con l’elmetto calato sugli occhi. Poi, volavamo da un’ora, un sergente ha aperto bocca.
«Ragazzi, sapete che ieri un C130 è precipitato fra Pleiku e Saigon?»
«Chiudi il becco» ha risposto qualcuno.
«E perché?»
«Già, perché?»
«Un sabotaggio forse, o una cannonata. Nessuno ha fatto in tempo ad usare il paracadute, del resto il paracadute a che serve, mettiamo che ora succeda lo stesso, mentre cali a terra ti sparano.»
«E chiudi il becco!»
Allora lui s’è rivolto a Moroldo.
«Siete giornalisti voi due?»
«Sì.»
«Andate a Dak To?»
«Sì.»
«Idioti, chi ve lo fa fare?»
Me lo chiedo anch’io, ora che siamo a Pleiku, sotto questa tenda dove aspettiamo l’elicottero che ci porterà a Dak To, e la guerra non è più una parola, un’immagine sul giornale o alla televisione, un tintinnare di vetri, è qualcosa che stai per veder da vicino e toccare, in mezzo a questa pianura dove non c’è nulla fuorché una tenda e un’attesa, un nome che ripetono tutti: Dak To, Dak To, Dak To. Dak To è un villaggio situato a dieci miglia dal confine col Laos e la Cambogia, proprio dove sbocca la Pista Ho Ci Min, vale a dire la strada da cui arrivano i rifornimenti di Hanoi alle formazioni vietcong e alle truppe nordvietnamite infiltrate nel Sud. Verso la fine d’ottobre a Dak To c’era solo un battaglione di americani, una piccola base aerea. Poi un disertore vietcong rivelò che i nordvietnamiti erano riusciti ad ammassare sulle colline ben settemila soldati, con questi si accingevano a sferrare un attacco. Westmoreland parò il colpo concentrando diecimila fra paracadutisti e Marines, il 1° novembre ebbe inizio la più sanguinosa battaglia combattuta finoggi in Vietnam. A Saigon si dice: «O gli americani vincono entro sette giorni a Dak To, o Dak To diviene la loro Dien Bien Phu».
No, non è facile non avere paura.





( Immagini dal web )









mercoledì 27 novembre 2013

Oriana Fallaci / Quel Giorno sulla Luna




Dopo aver passato quattro anni insieme agli astronauti, in particolare quelli impegnati nei progetti Gemini e Apollo 11, la Fallaci ha acquisito una conoscenza davvero profonda delle ricerche che porteranno l’uomo ad approdare sulla Luna. Come semplice giornalista, inviata dell’«Europeo» prima, come amica e confidente poi, ha assorbito in pieno il clima di sfida, non solo tecnologica, tra Stati Uniti e Urss.







Ha osservato e compreso i mezzi tecnici e finanziari necessari alla partenza, al volo, all’attraversamento dell’orbita terrestre, all’atterraggio sulla Luna. Ha assistito alla selezione degli astronauti da lanciare nello spazio, rintracciandone le motivazioni principali. Ha poi intervistato gli stessi astronauti, gli scienziati impegnati nella missione, gli economisti che si occupavano di reperire i fondi indispensabili all’operazione, gli scrittori di fantascienza che intorno al mito della Luna avevano basato un genere letterario.
Ne è nato subito un libro pubblicato nel 1965 da Rizzoli, Se il Sole muore, che sulla base di queste conoscenze Oriana ha impreziosito di un fitto tessuto romanzesco. In seguito, tornando ai grandi reportage pubblicati per «L’Europeo» e arricchendo la cronologia di tutte le conseguenze che l’allunaggio ha innescato, la Fallaci ha ricostruito quegli anni di cambiamenti così rivoluzionari e repentini, sviscerando ulteriormente i dilemmi morali e psicologici già affrontati in Se il Sole muore.







Ne è nato così Quel giorno sulla Luna, resoconto minuzioso delle missioni nello spazio e ritratto disincantato degli astronauti, personaggi diventati ormai mitici nell’immaginario collettivo ma che per la Fallaci nulla rende speciali. Condividendone le angosce, le speranze e le delusioni, i momenti di tristezza e debolezza, si è infatti convinta che non si tratti di eroi o persone particolarmente sopra la norma («E chi sono loro? Diciamolo subito: borghesi di provincia. Non ti aspettare da essi un’intelligenza pari alla responsabilità che hanno, o una visione nuova della vita»), ma di uomini normalissimi che il caso ha portato a vivere in prima linea la più grande avventura dell’uomo.






Per conoscerlo un po'


Un uomo, messo accanto a quel razzo, sembra meno di una formica. È un razzo così ciclopico che la sua altezza equivale a quella di un grattacielo con trentasei piani, la sua ampiezza è quella di una stanza di sette metri per sette. Pieno di carburante, pesa tremila tonnellate. Per alzarsi, ha bisogno di una spinta pari a quattromila tonnellate. Se ne raggiungi con un ascensore la cima, io l’ho fatto, ti coglie il terrore. E di ciò non ti rendi conto alla televisione o quando lo guardi dal recinto della stampa che è il più vicino alla pista di lancio: un chilometro e mezzo.







 La torre che lo sostiene è altrettanto grossa, tutto intorno la pianura è deserta: ti mancano i termini di paragone, e solo il boato che segue la fiammata da apocalisse ti riconduce alla realtà. Poi lo spostamento d’aria che ti investe come un mastodontico schiaffo. Ma è una realtà irreale: mentre lui sale dentro l’azzurro sputando una cometa di fuoco arancione, tuonando l’esplodere di mille bombe, non credi ai tuoi occhi e ti senti quasi offeso nelle tue dimensioni umane. Offeso, ricordi che in fondo è una bomba, nacque da una bomba che si chiamava V2 e non serviva a volare nel cosmo, serviva a distruggere le città, a massacrare gli inermi. Pensaci al momento in cui partirà per la Luna, il 16 luglio. La data è il 16 luglio. L’ora le nove e trentadue del mattino. Il luogo, Cape Kennedy in Florida. 






Avrebbe potuto essere Baikonur nell’Unione Sovietica: la corsa dei due paesi andava di pari passo e anzi sembrava che a vincerla fossero i russi. Poi i russi rimasero indietro, non s’è mai saputo perché, e a meno di una sorpresa in extremis sembra proprio che a vincerla siano gli americani. Hanno tenuto fede all’impegno. Entro il 1969, dicevano, sbarcheremo sulla Luna. Ed entro il 1969 ci sbarcano: 
per darci il Grande Spettacolo.
Naturalmente gli uomini non cambieranno per questo: allo stesso modo in cui non cambiarono il giorno che la prima zattera si staccò da una spiaggia e navigò il mare e approdò a un’altra spiaggia. Coloro che ancora vivono come bestie dimenticate da Dio, e sono centinaia di milioni, non sanno neppure che esiste il razzo Saturno, che si va sulla Luna. Se lo sapessero, direbbero ciò che dicono le due spazzine della vignetta pubblicata anni fa da un giornale satirico di Mosca: «Ora ci tocca spazzare anche lei». Quanto a coloro che invece lo sanno e ne comprendono il significato, non illudiamoci.








 Gli uomini continueranno come prima a soffrire, a uccidersi nelle guerre, a offendersi nelle ingiustizie, e con la Luna allargheranno i confini della loro perfidia e del loro dolore. Ma allargheranno anche quelli della loro intelligenza, della loro curiosità, del loro coraggio e, se le insidie non si materializzano, può anche darsi che il Grande Spettacolo diventi una buona avventura. Certo le insidie sono cupe. La prima è che un microscopico germe lunare invada la biosfera e contagi il genere umano, gli animali, le piante, le acque: senza che la natura e la scienza sappiano difendersi. La morte fisica insomma. La seconda è che la tecnologia prenda il sopravvento e addormenti i nostri cuori, i nostri cervelli, ci trasformi in robot incapaci di fantasia, sentimenti, rivolta. La morte spirituale insomma. La terza è che tutto si risolva in un avvenimento giornalistico, uno show televisivo dietro cui non c’è nulla fuorché qualche dato scientifico per far guadagnare chi guadagna già troppo. La morte morale insomma. Per destino o per scelta, ci siamo imbarcati in un’impresa che rischia di annientarci o peggiorarci o deluderci. Ma non possiamo più tirarci indietro. E qui sta il lato eroico dell’intera faccenda, il suo blasfemo splendore, la conseguente retorica che l’ha sempre falsata."





( Immagini dal web )









giovedì 14 novembre 2013

Oriana Fallaci / Se il Sole Muore






Nell’esergo al libro si cela il senso più profondo della riflessione della Fallaci:

A mio padre che non vuole andar sulla Luna
perché sulla Luna
non ci sono fiori né pesci né uccelli.
A Teodoro Freeman che morì ucciso da un’oca
mentre volava per andar sulla Luna.
Ai miei amici astronauti che vogliono andar sulla Luna
perché il Sole potrebbe morire.

È un’ambientazione sospesa, rarefatta, ai limiti del fantascientifico, quella di Se il Sole muore: l’erba è di plastica e indistruttibile, i robot circolano liberamente per le strade, il forno parla, ci si sposta soltanto in elicottero e non è rimasta traccia degli odori «inutili» della natura, del mondo prima della svolta tecnologica. È una versione inedita – e quasi apocalittica – della Los Angeles di fine anni Sessanta a far da sfondo all’incontro tra Oriana Fallaci e gli astronauti che si stanno preparando allo sbarco sulla Luna.
L’accurato resoconto scaturito dal confronto di due modi antitetici di leggere la realtà si inserisce nel dibattito dell’epoca, e si basa su alcuni dolorosi interrogativi: è giusto andare sulla Luna? E se invece si trattasse di un gesto stupido, avventato? Se inseguendo il sogno di conquistare la Luna rischiassimo di perdere tutto il resto?







In un mondo sconvolto dai frenetici cambiamenti dello sviluppo scientifico, dove gli strumenti elettronici rendono tutto possibile e la ricerca spasmodica di un «annullamento» dei tempi allontana da quello che la Terra era stata fino a pochi anni prima, la Fallaci è testimone degli esperimenti che astronauti e scienziati americani portano avanti nel miraggio dello sbarco sulla Luna, e dello scontro generazionale di chi in esso scorge una sconfitta anziché una speranza. La scrittrice è a tal punto coinvolta nei progetti dei suoi amici astronauti che Pete Conrad portò con sé in orbita una foto di Oriana in compagnia della madre Tosca e, sbarcando sulla Luna, pronunciò una frase che la stessa Fallaci aveva scritto ad hoc.







Al posto del Sole che potrebbe morire, sinonimo di vita, di natura, di animali fiori e piante, ora si trova soltanto il fioco bagliore della Luna, rifugio estremo e simbolo di un’evoluzione che rischia di cancellare tutto quel che il mondo è stato, eliminando la passione, l’arte, la poesia, e non lasciando più spazio all’uomo.






Un assaggio


" Il sasso non si vedeva, tanto l’erba era fitta e rigogliosa: ci incastrai un piede e caddi distesa, parallela alla strada. Nessuno mi venne in aiuto. E poi chi? Nessuno camminava in quella strada e forse in tutte le strade della città. Nessuno all’infuori di me. Nessuno esisteva, nessuno con due piedi e due gambe, un corpo sulle due gambe, una testa sul corpo: esistevano solo automobili che scivolavan via unte, ordinate, sempre alla stessa velocità, alla stessa distanza, e non un uomo dentro, una donna. Sedevano figure umane al volante, d’accordo: ma così ferme, composte, che certo non si trattava di uomini, donne, si trattava di automi, robot. La tecnologia moderna non è forse in grado di fabbricare robot identici a noi? La prima legge dei robot non è forse «ricorda che non devi interferire con le azioni degli umani ammenoché gli umani non sollecitino il tuo intervento»? Io sollecitavo forse un qualsiasi intervento?







Al contrario. Distesa sul prato lungo la strada, le guance in fiamme per l’imbarazzo, speravo solo che non mi si scorgesse, che non si ridesse di me. E i robot obbedivano: scivolando via unti, ordinati, sempre alla stessa velocità, alla stessa distanza, nemmeno chiedendo al loro calcolatore elettronico se la donna a pochi passi era morta o era viva e se era viva perché non si rialzava. Non mi rialzavo perché avevo notato qualcosa di assurdo, di atroce: quell’erba non aveva odore di erba.
Ci tuffai dentro il naso, aspirai. No, non aveva odore di erba, non aveva odore di niente. Agguantai tra il pollice e l’indice un filo, tirai. No, non si sradicava, non si strappava neanche. Frugai con l’unghia giù in basso, cercai un granellino di terra. No, non si afferrava neanche un granellino di terra: che strano. Eppure era terra, aveva il color della terra, la consistenza della terra. E l’erba piantata lì dentro era erba, aveva il colore dell’erba, la consistenza dell’erba, erba morbida, fresca, annaffiata perfino con un ingegnoso sistema di spruzzi perché restasse verde, crescesse, mio Dio, non stavo mica delirando, sognando, quel prato era un prato, sì, certo, era un prato... Era un prato? Di nuovo ci tuffai dentro il naso, aspirai. Di nuovo agguantai tra il pollice e l’indice un filo, tirai. Di nuovo frugai con l’unghia giù in basso, cercai un granellino di terra e, quasi una coltellata al cervello, il sospetto divenne certezza. Era un prato di plastica. Sì, di plastica. E tutti i prati che avevo visto in quei giorni, i prati lungo i viali, i prati lungo le autostrade, i prati dinanzi alle case, alle chiese, alle scuole, i prati curati dai giardinieri, annaffiati, trattati come prati vivi, prati veri, prati che nascono e muoiono, erano dunque in plastica. Un immenso sudario di plastica, di erba mai nata e mai morta, una beffa.






Come punta da mille vespe mi alzai, rientrai di corsa in albergo, spalancai la porta del mio appartamento e quasi caddi sulla pianta di cactus che adornava il soggiorno. Era un grande cactus: verde, succoso, irto di aculei e con un fiore sul capo. Tastai prima il fiore, lo piegai, lo contorsi: rimase intatto. Infilai un dito fra gli aculei, pigiai la polpa, supplicai una stilla di liquido: mi rispose una cedevolezza di gomma. Gli strinsi con entrambe le mani gli aculei, disperatamente pregando che mi bucassero, che mi dicessero ti sei sbagliata: mi donarono solo un solletico lieve, gli aculei eran di alluminio con le punte arrotondate. E il ficus nel corridoio? Falso anch’esso, s’intende. E la siepe là nel giardino? Falsa anch’essa, s’intende. E forse eran falsi anche gli alberi intorno ai quali non v’erano mai moscerini né uccelli: ogni filo d’erba, ogni ramo, ogni foglia era falso in questa città dove niente nasceva cresceva moriva nel verde. False le margherite, le azalee, i rododendri. False le rose in quel vaso, false... Il vaso stava sulla TV e avvicinandomi non avevo più speranza né dubbio. Sfilai piano una rosa, la alzai all’altezza del viso, la lasciai ricadere, e la rosa fece crac! poi si infranse sul pavimento in mille schegge di minutissimo vetro. Sul pavimento rimase una brinata di freddo, una goccia di luce. Ero giunta a Los Angeles, prima tappa del mio viaggio dentro il futuro e me stessa.






( fonte e fotografie web)





Piemontesità

Piemontesità
" ...ma i veri viaggiatori partono per partire, s'allontanano come palloni, al loro destino mai cercano di sfuggire, e, senza sapere perchè, sempre dicono: Andiamo!..." ( C.Boudelaire da " Il viaggio")