mercoledì 29 aprile 2015

Per Gloria, lettera ad un'amica.




Ciao Gloria, ciao cara amica mia,
te ne sei andata ieri in una giornata gonfia di pioggia e colorata di grigio,
te ne sei andata in silenzio, tu che amavi la musica e i colori, te ne sei andata 
dopo 22 giorni di buio e di dolore, 22 giorni  in cui tutti abbiamo pregato e
sperato per te.
Mi sento orfana di te, orfana della nostra grande amicizia, penso ai nostri indimenticabili
momenti, alle passeggiate, la bellissima giornata trascorsa " sulla strada dell'Artignaga,
alla Burcina, alle uscite per comperare i regali di Natale e alla felicità di quei giorni.
Penso ai nostri mercoledì tra tisane, gossip paesano e politica...
penso a quanto mi sei stata vicina quando temevo per la salute di Renato, a come
mi rassicuravi...chissà se hai potuto sentire quanto anch'io, adesso, ti sono stata accanto.
Chissà se sei riuscita a sentire quanto amore tutti, in questi giorni, ti hanno mandato, quanto tutte
 le persone a cui tu, con il tuo grande cuore, hai fatto del bene ti hanno amata
Te ne sei andata così, lasciando dietro di te un grande vuoto e, sai, è difficile pensare che
domani la vita possa ricominciare senza di te, che domani io ricomincerò a fare progetti,
a realizzare sogni, a pensare pensieri senza più poterli condividere con te.
Abbiamo avuto poco tempo, amica mia, una manciata di anni, ma sono stati grandi anni,
anni che abbiamo saputo riempire di quelli che adesso sono diventati preziosi ricordi.
Restano le cose che non abbiamo fatto in tempo a dirci, i progetti che non abbiamo avuto
tempo di realizzare, resta tutto ciò che volevamo fare insieme e che adesso farò io
pensando a te.
Non so, amica mia, quale sia stato il senso della tua vita finita così presto, e tanto
meno so quale sia il senso della tua morte ma so che hai illuminato la vita di chi ti
ha incontrata, so che, se è vero che nella vita tutti abbiamo un compito, tu hai svolto il
tuo nel migliore dei modi, aiutando chi purtroppo è costretto a vivere tra grandi difficoltà
e amando chi ha avuto la fortuna di conoscerti.
Ti sei sempre spesa per tutti e - ti ricordi? - io ti sgridavo e ti dicevo che dovevi imparare a
pensare un po' di più a te stessa, che dovevi volerti più bene e tu mi dicevi " Sì, adesso
lo faccio, hai ragione, devo coccolarmi di più "
Io non so in quale altrove adesso sei, in quale Paradiso o in quale cielo ma so che sei
comunque vicino a tutti a noi e che vivrai per sempre nei nostri cuori.
Ciao, amica mia,  arrivederci, sono sicura che in un'altra vita, in un altro mondo
ci ritroveremo e ci riconosceremo e sarà di nuovo tutto come prima, ricominceremo
a raccontarci la vita.
Grazie di esserci stata, un lungo, interminabile abbraccio, amica mia per sempre...

lunedì 27 aprile 2015

Il Tetto del Mondo abbattuto dagli dei




Quando crolla il tetto del mondo non c'è riparo sulla terra. 
La rabbia degli dei si abbatte sugli uomini inermi, li schiaccia come formiche, strato di cadaveri
dopo strato. Non c'è riparo solo polvere e macerie. A migliaia vengono sepolti.
La terra si apre crollano i palazzi e le torri. L'arroganza umana che le ha innalzare viene decapitata dalla
furia della divinità.







Si sbriciola, in Nepal, la torre Dharahara, decine e decine di metri ridotti a sabbia. Crollò nel 1934,
 la rimisero in piedi. Adesso di nuovo capitola, nello scontro tra Shiva, il distruttore, e Vishnu, il costruttore.
Hara Shiva, " colui che porta via " si è goduto la sua ecatombe, in memoria dei tempi antichi,
quando l'umanità aveva terrore di lui, e cercava di placarlo sacrificando.









Non è servito ai nepalesi invocare e sui mille e otto nomi: egli ha distrutto.
Non solo le cose e le persone. Shiva è anche colui che straccia il velo di Maya, che porta consapevolezza.
Ha portato ieri contezza della fine. Della fragilità.









E' terra dove si consumano pulsioni ancestrali, il Nepal.
Meta dei ricchi fricchettoni e delle loro fumisterie negli anni in cui ci si credeva ancora.
Spuntone tra i cui crepacci si aggirano Yeti e altri esseri mitologici di cui in più di un'epoca
le droghe han favorito la comparsa.









Terra mistica agli occhi ignari degli occidentali, luogo divino per chi ha saputo
incamminarsi sulla strada impervia della saggezza. Giuseppe Tucci, esploratore dei
boschi dell'animo sotto il fascismo, vi trovò la conoscenza. Si abbeverò alla fonte di
Hem Raj Sharma, precettore di corte, l' uomo che possedeva la più grande biblioteca
nepalese, colui che volle ordinare la lingua degli dei.









Hem Raj creò una grammatica del sanscrito, la lingua nobile del Nepal, a cui si dà
attributo di divinità perchè non si modifica, il parlato non la intacca.
Anche se non tutti la parlano, preferendole il popolare nepali, imbastardito.








E' terra di vette e cadute, il Nepal. Altezze che lambiscono il Pantheon, cime impervie dove 
gli uomini misurano se stessi, nel Paese dell'altitudine media maggiore del globo dopo
il Tibet. E poi gli abissi della povertà, perchè lì si campa con pochi spiccioli al giorno, qualche dollaro,
 e la violenza di modi e di pensiero dei maoisti rapisce molte menti.









Si misurano le fosse della disperazione, con il sangue che bagna le rocce sgretolate.
Un paese dove i terremoti sono frequenti: prossimità agli dei significa anche questo,
prossimità alla morte. Ancora Shiva dunque. Dispersione e dissoluzione, ma anche trasformazione.
Pulsione del mondo e devastazione.









Questo vedono gli occhi illuminati dei saggi.
Ai nostri occhi umani, invece, resta solo il disastro.
La polvere e le rovine sotto cui muoiono anche gli dei.





venerdì 24 aprile 2015

Canto notturno del viandante





" Su tutte le vette
è quiete;
in tutte le cime degli alberi
senti un alito
fioco;
gli uccelli son muti nel bosco.
Aspetta, fra poco
riposi anche tu.
( Goethe )

mercoledì 22 aprile 2015

Mito di Arianna, il labirinto e il suo simbolismo



Nel labirinto non ci si perde

Nel labirinto ci si trova

Nel labirinto non si incontra il Minotauro

Nel labirinto si incontra se stessi

H. Kern




La storia che vede coinvolti Arianna e Teseo si intreccia con quella del Minotauro. Minosse, re di Creta, pregò Poseidone (dio del mare) di inviargli un toro, promettendo di sacrificarlo in suo onore. Poseidone acconsentì e fece uscire dal mare un bellissimo e possente toro bianco, di valore inestimabile.

Vista la bellezza dell'animale, Minosse decise di tenerlo per le sue mandrie, come toro da monta, sacrificando al dio un altro animale. Il dio del mare, naturalmente, si accorse dell’inganno e lo punì facendo innamorare perdutamente Pasifae, moglie di Minosse, del toro stesso. Nonostante quello fosse un animale e lei una donna, ella desiderava ardentemente accoppiarsi con esso. Divenne per lei una sorta di ossessione voleva a tutti i costi soddisfare il proprio desiderio carnale.
La donna, per realizzare questa insana passione, venne aiutata da Dedalo, che costruì per lei una vacca di legno montata su ruote, ricoperta di una pelle bovina e con l’interno cavo ove Pasifae si nascose. Il toro la montò considerandola un animale vero.









Dalla loro unione nacque Asterio, chiamato Minotauro (da “minos” che in cretese significa re e “tauro” che significa toro). Questi aveva il corpo umanoide e bipede, ma aveva zoccoli, pelliccia bovina, coda e testa di toro. Era selvaggio e feroce, perché la sua mente era completamente dominata dall'istinto animale.
Naturalmente un mostro del genere non poteva vivere nella reggia di Minosse per il terrore che suscitava in tutte le persone con le quali veniva in contatto. Così il re incaricò Dedalo di costruire un labirinto per rinchiudervi il Minotauro. Si narra che Dedalo, aiutato dal figlio Icaro, alla fine della costruzione, rimanesse prigioniero a sua volta nel labirinto e solo utilizzando lo stratagemma delle ali di cera riuscì col figlio ad uscire da quel luogo.
Il Minotauro si cibava di carne umana e veniva nutrito con i fanciulli e le fanciulle condotte a Creta dalla città di Atene, precedentemente conquistata. A questo punto del mito interviene Teseo, figlio di Egeo e di Etra, eroe indomito, che da Atene parte alla volta di Creta assieme ai giovani da sacrificare al mostro. Promette al padre che al suo ritorno sarebbe tornato con le vele bianche spiegate al vento, segno della sua vittoria sul mostro.









Alla partenza vennero issate delle vele nere adatte alla natura malinconica della spedizione. Giunto a Creta venne ospitato alla corte di Minosse e qui, durante una gara, conosce Arianna che rimane letteralmente folgorata dalla bellezza e prestanza di Teseo. Nasce l’idillio. Teseo chiede ed ottiene di entrare per primo nel labirinto, e con l’aiuto di Arianna che le consegna il famoso gomitolo, si appresta ad affrontare il mostro.








Legato il gomitolo all’entrata del labirinto lo dipanò man mano che si addentrava in quel intricato dispiegarsi di cunicoli, stanze, anfratti, finché non incontrò il mostro. Teseo combatté il Minotauro a mani nude ed alla fine riuscì a spezzargli il collo. Quindi seguendo il filo si avviò all’uscita dove l’attendeva l’ansiosa Arianna. Radunati gli altri giovani, Arianna e Teseo presero il mare alla volta della Grecia. Ma la storia d’amore tra i due volge all’epilogo.
Teseo sulla via del ritorno realizzò le intenzioni di Arianna di convolare a giuste nozze una volta giunti ad Atene. Teseo dal canto suo, non aveva nessuna intenzione di prendere moglie, così mise in atto uno stratagemma per liberarsi della donna.
Con la scusa di dover fare delle provviste decise di far tappa all’isola di Nasso. In piena notte mentre Arianna dormiva, silenziosamente risalì sulla nave, abbandonando la poverina. Forse il termine piantare in asso deriva dall’abbandono di Arianna a Nasso.
Al risveglio Arianna non trova l’amato Teseo, né la nave e gonfia di rabbia e di dolore iniziò a piangere per giorni e giorni. Le sue grida risuonarono per tutta l’isola finché il dio Dioniso la trovò e la prese in sposa. Come regalo di nozze le donò un diadema forgiato da Efesto che alla sua morte venne tramutato nella costellazione della corona boreale. Nel frattempo Teseo ritornò in patria ma dimenticò di cambiare le vele, così il padre Egeo ritenendo che il figlio  fosse morto nell’impresa, si gettò dalle rocce dell’Acropoli in quel mare che da allora prese il suo nome. Teseo divenne re e governò saggiamente sul suo popolo.









Che dire di Arianna? Considerarla una donna sedotta ed abbandonata mi sembrerebbe di farle un nuovo oltraggio. In realtà parliamo di una principessa che avuto il torto di innamorarsi della persona sbagliata, che ha ceduto all’irresistibile forza dell’amore e per questa si è resa complice dell’uccisione del fratellastro, d’accordo, un mostro assetato di sangue, ma comunque sangue del suo sangue.
Non ha avuto esitazione a lasciare la casa paterna per andare a vivere ad Atene, città assoggettata da Creta, che chiedeva un tributo annuo di sette giovanetti e sette giovanette da dare in pasto al Minotauro, verosimilmente non vi avrebbe trovato calore e solidarietà. La forza del suo amore le faceva superare ogni ostacolo. Donna intelligente ed astuta, è sua l’idea del gomitolo, senza la quale Teseo, ancora oggi si troverebbe a girovagare per il labirinto in cerca dell’uscita.
Ma la sua intelligenza e la sua astuzia non la salvano dall’inganno di Teseo, probabilmente perché il suo amore le aveva fatto cadere tutte le normali difese, si fidava di quell’uomo, mai si sarebbe aspettato un tradimento dal suo amato. Così si addormenta tranquilla sull’isola, ignara del destino che l’attende.
Catullo (carme 64) descrive l’angoscia, il dolore di Arianna che vede allontanarsi dall’isola la nave con il suo amore.









Ed ecco sulla riva di Dia fra scrosci di onde
Arianna vede fuggire Teseo all'orizzonte
sulla nave che veloce s'allontana e in cuore
presa dal delirio non vuol credere ai propri occhi,
ora che strappata alle illusioni del sonno
si ritrova abbandonata sulla spiaggia deserta.
Batte coi remi il mare, l'ha dimenticata, fugge,
lasciando che i venti disperdano le sue promesse.


Realizza di essere stata abbandonata e dà libero sfogo al dolore ed alla rabbia, il pianto è straziante… finchè, come nelle favole che si rispettino, interviene il salvatore nelle vesti di Dioniso che la raccoglie e la fa sua sposa, regalandole quel diadema che rimarrà in eterno nel firmamento a testimonianza di una donna di valore.








Il Labirinto



Ciascuno di noi costruisce il proprio labirinto. Incontrando numerosi ostacoli nel corso della vita e tentando di superarli, non facciamo altro che iniziare un percorso di crescita entrando e uscendo di continuo da labirinti quotidiani. Il messaggio iniziatico del labirinto è presente in ogni istante del nostro vivere: l’iniziazione con il suo carico simbolico è la chiave per comprendere questo tema, e vuol dire rinascere una volta raggiunta l’uscita, dopo aver superato una sorta di simbolica morte temporanea. Ma, tra i molti interrogativi che possiamo porci, uno merita particolare attenzione: qual è l’uscita del labirinto?








Scopriamo che questo mondo è, con il suo caos, il risultato di un processo mentale che viene da lontano, dal passato remoto. Il centro di questo meccanismo è situato a Creta, nel secolo II a.C., nel Tempio di Cnosso, un luogo denso di contenuti misterici. Pensando a Cnosso evochiamo subito il labirinto come forma simbolica perché rappresenta un vero e proprio mito: è il labirinto onirico che si traduce in realtà perduta nei secoli e in archetipo dell’architettura intricata creata dall’uomo. Come un sogno del passato, Cnosso è la conseguenza dell’inconscio umano che ragiona “labirinticamente”. E, d’altra parte, il dedalo è una forma primaria della mente, un contenuto celebrale. Il labirinto è “un’idea” che, solo in un secondo momento, prende forma estetica attraverso la materia: è il percorso dell’uomo che insegue la conoscenza. Il dedalo è, dunque, la vita stessa.









Il mito greco del labirinto e del Minotauro di Cnosso si colloca tra la leggenda e l’allegoria, non è quindi un racconto verosimile ma evoca comunque figure e situazioni elevabili a simboli carichi di significato. Non abbiamo a che fare con una storia già conclusa ma con un simbolo che conserva ancor oggi la sua efficacia, cosa che influisce naturalmente anche sulla nostra visione. C’è una connessione cruciale tra i miti arcaici e i simboli prodotti dall’inconscio: ciò consente di identificare e di interpretare questi simboli in un contesto che conferisce loro prospettiva storica non meno che significato psicologico. La mente inconscia dell’uomo moderno conserva tuttora quella capacità simboleggiatrice che un tempo trovava espressione nelle credenze e nei rituali primitivi: e tale capacità svolge ancora un ruolo di vitale importanza psichica.









L’avventura del labirinto ha un significato di morte simbolica, un viaggio nel mondo degli inferi, un viaggio nell’aldilà. La via verso l’interno simboleggia al tempo stesso anche la via verso il basso e l’uscita vittoriosa dal labirinto può essere paragonata al riemergere dalla superficie del mare. Teseo penetra da solo nel labirinto, sostiene la lotta col Minotauro, riesce anche a uscire dal labirinto mediante l’astuzia e la prudenza (filo di Arianna); superata questa prova diventa re e fondatore di città.









Nel labirinto si nota una materializzazione pressoché perfetta del processo di iniziazione. Al centro del labirinto, l’ iniziando è solo con la sua realtà interiore, vi incontra se stesso, un principio divino, un Minotauro o qualsiasi altra cosa possa essere rappresentata da un “centro”. In ogni caso con il centro si intendono anche il luogo e la possibilità di una conoscenza così fondamentale da richiedere un mutamento di direzione radicale. Chi vuole tornare fuori dal labirinto, deve fare dietrofront e ripercorrere i suoi passi. Un mutamento di direzione significa il massimo allontanamento possibile dal proprio passato. L’inversione del moto al centro non significa perciò solo la rinuncia all’esistenza passata, ma anche un nuovo inizio. Chi esce dal labirinto, ne esce non come il vecchio, ma come rinato in una nuova fase o piano dell’esistenza. Al centro hanno luogo la morte e la rinascita. La via verso il centro del labirinto simboleggia la via verso il mondo sotterraneo, dove il ritorno alla madre Terra è connesso con la speranza di una rinascita. Il dedalo sembra assumere la forma di uno scambio simbolico in cui la morte e la vita sono lo sdoppiamento di una stessa realtà.









Il gioco del labirinto ha un significato rituale: serve a scongiurare – rappresentandola – la paura della morte, l’angoscia dell’uomo di fronte alla nullificazione di tutte le cose. E’ un percorso in due tempi: l’entrata nel labirinto e il faccia a faccia col mistero costituiscono la prima parte, in cui gli attori del gioco sperimentano la perdita di sé. Il ritorno alla luce rappresenta una nuova nascita, attesta la continuità della vita, che di generazione in generazione rinnova se stessa. Il “cuore” del labirinto assomiglia a un utero materno e il filo di Arianna ad un cordone ombelicale. Il Minotauro è un embrione, un germoglio  nel ventre della madre: ombra inquietante di possibilità inespresse, con cui, ciascuno è chiamato a confrontarsi.









Nella mitologia dunque ritroviamo il toro in veste di Minotauro, al centro del labirinto: il Minotauro è la versione negativa del toro, suggestiva rappresentazione del male da sconfiggere per superare la prova, per raggiungere uno status superiore, per procedere all’iniziazione. Il toro è al centro del dedalo e viene sacrificato: con il suo sangue genera vita e prosperità e scaccia via il negativo temuto tanto nel passato quanto nel presente. Il toro rappresenta, forse, la nostra stessa immagine al negativo, l’alter ego malefico di ciascuno di noi. Jung parla del Minotauro come dell’archetipo dell’immagine materna divorante e del percorso dell’anima verso l’equilibrio del proprio sé: esso è nella maggior parte dei casi espressione della brutalità, dell’istintualità irrazionale che non conosce morale , della violenza al di là del bene e del male. Il labirinto permette, attraverso la nostra guida, Arianna, di ritornare a tale componente di noi stessi, di prenderne atto, di rielaborarla per giungere ad un nuovo equilibrio. Noi stessi siamo artefici, cause efficienti della costruzione del dedalo al fine di isolare in un serrato ambito le nostre soverchianti angosce. Il Minotauro sostituisce allora l’angoscia libera originaria e allorchè la situazione diviene costrittiva, claustrale e il soggetto non ha possibilità di fuga, la conseguenza può essere il panico. Infatti, per coloro che soffrono di attacchi di panico è fondamentale avere nel loro percorso, fuori da casa , dei punti di riferimento familiari che creano come un filo conduttore rassicurante rispetto al perdersi nel mondo.








Il labirinto può essere interpretato anche come il tentativo, vano, da parte di Minosse di mascherare le proprie incoerenze, ipocrisie: il Minotauro è la rappresentazione antinomica del lato umano di Minosse, mistificato da quello politico. Dentro il labirinto vive, metaforicamente, lo stesso Minosse, che non vuole rinunciare al sé alienato della sua vita privata, nonché alla finzione di una vita pubblica irreprensibile. Il mito del Minotauro è il tentativo di celare il fallimento della politica scissa dall’etica, e quindi è di fatto un mito istituzionalizzato. E’ la rappresentazione simbolica del definitivo passaggio da una forma sociale comunitaria-primitiva a una chiaramente schiavistica. Minosse si rifiuta di sacrificarlo perché antepone al sé collettivo il sé privato.L’uccisione del Minotauro non è che l’espressione di una impossibilità, quella di poter continuare a celare ai cittadini del regno la dicotomia tra leggi giuste e società ingiusta. E’ la presa di coscienza della debolezza intrinseca del potere, un colpo inferto alla sua apparente legalità e stabilità. Nell’intreccio del mito Minosse non avrebbe mai potuto uccidere il Minotauro, perché sarebbe stato come uccidere se stesso, cioè la coscienza alienata. Il Minotauro cerca di fuggire dal labirinto ma non può, perché il labirinto  è diventata la sua seconda casa, in cui può vivere la sua seconda natura.









Nel labirinto, nel rito iniziatico, non c’è puro amore e mera fratellanza, bensì alleanza e violenza. C’è sostanzialmente una struttura negativa da cui tutto discende. L’amore è il frutto proibito, al centro del dedalo, un episodio all’interno di una complessiva impalcatura che comunica violenza. L’amore è la rosa tanto agognata dall’uomo, l’irraggiungibile bellezza a cui il genere umano mira per riscattarsi. Così Arianna rappresenta molto di più di un’aiutante che dona un mezzo fatato (il filo) a Teseo, per condurlo sano e salvo all’uscita del labirinto. Arianna è la rosa del labirinto, l’amore stesso. L’uomo, immerso nella violenza, sempre la cerca, la vuole. Arianna è l’eterno segreto della vita, fonte indispensabile che allontana i fantasmi e le paure.









Una linea dunque unisce vari aspetti del labirinto e su di essa viaggiano i frammenti principali della concettualizzazione sul dedalo: il rito e il culto, la danza rituale, il sacrificio e l’iniziazione, l’amore e l’uscita dal labirinto. In tutte le civiltà il labirinto sta a rappresentare in una guisa contorta e confusa il mondo della coscienza patriarcale; esso può essere penetrato solo da coloro che siano preparati a ricevere una speciale iniziazione al mondo misterioso dell’inconscio collettivo. In particolare, la via della conoscenza interiore proposta dal simbolo del labirinto ha rappresentato lo spostamento di Creta dalla cultura matrilineare a quella patriarcale.








Dopo aver superato questa prova rischiosa, Teseo porta in salvo Arianna, una fanciulla in pericolo. Questo salvataggio simboleggia la liberazione della figura dell’Anima dall’aspetto divorante dell’immagine materna. Finché essa non si è realizzata l’uomo è incapace di entrare positivamente in rapporto con le altre donne.

L’esperienza del labirinto ci propone un processo di iniziazione che ci conduce  verso il Centro, dove siamo soli di fronte alla nostra realtà interiore per prenderne coscienza. Qui ci possiamo perdere , perché il labirinto è luogo di mascheramenti e d’intransitabili nostalgie. Dove la maschera è l’ennesimo, inesorabile, travestimento dello stesso nulla, dello stesso vuoto,  insondabile presenza e lontananza del mistero.





( Immagini dal web )

lunedì 20 aprile 2015

Le " masche " piemontesi






La masca è una strega o fattucchiera del folclore piemontese.
Il termine piemontese, di etimologia incerta, è diffuso nel Roero, nelle Langhe, in Astesana, nel Biellese e nel Canavese, nelle Valli Cuneesi e anche nell’Alessandrino. Il termine trae origine dal longobardo masca e compare per la prima volta in un testo scritto nell’Editto di Rotari (643 d.C.) col significato di strega: «Si quis eam strigam, quod est Masca, clamaverit». Indica l’anima di un morto (da cui anche il significato meno comune di “spirito soprannaturale”), o dall’antico provenzale mascar, borbottare, nel senso di borbottare incantesimi.
Le masche sono una figura di rilievo nel folclore e nella credenza popolare piemontese: generalmente sono donne apparentemente normali, ma dotate di facoltà sovrannaturali tramandate da madre in figlia
 o da nonna in nipote, o per lascito volontario ad una donna giovane.
Secondo la tradizione, i poteri delle masche comprendono l’immortalità ma non l’eterna giovinezza
o la salute: sono quindi vulnerabili e soggette alle malattie e all’invecchiamento.
 Quando decidono di averne abbastanza di questa vita, per poter morire devono trasmettere i poteri
ad un’altra creatura vivente, che spesso è una giovane della famiglia, ma alcune volte può essere
un animale o un vegetale.
Le masche hanno il potere della bilocazione e della trasformazione in animali, vegetali o oggetti.
Possono far uscire l’anima dal corpo e volare immaterialmente nello spazio, mentre non possono farlo fisicamente; poiché durante il volo magico il corpo resta incustodito ed inanimato,
l’attività delle masche è quasi esclusivamente notturna.









Le masche sono presenti in diverse culture delle valli piemontesi. La loro origine è da ricondursi a quella relativa alle streghe. Nelle millenarie culture pre-cristiane di origine celtica e longobarda esistevano radicati elementi magici che condizionavano la gravosa vita della popolazione montanara. Le masche potevano essere donne particolarmente emancipate, che tentavano di elevarsi dal contesto sociale che le privava di molte opportunità, applicando le loro conoscenze nella primitiva medicina e nella vita spirituale.

Una masca poteva essere una donna che conosceva le erbe e sapeva preparare infusioni dal sicuro effetto, oppure praticare riti magici e oscure maledizioni.
Le masche da un lato venivano interpellate dalla gente perché, credendole dotate di poteri magici,
avrebbero potuto guarire malanni, allontanare oscuri presagi, difendere da malocchi e dannazioni,
 propiziare una stagione favorevole. D’altra parte, per via delle loro pratiche,
 potevano anche venire guardate con sospetto o timore, ed essere accusate di danni e sventure.









Con l’avvento del Cristianesimo questi elementi magici, propri di millenarie culture di origine celtica e longobarda, vennero sfruttati dalla nuova religione per radicarsi con maggiore effetto tra la popolazione, epurandoli dai componenti blasfemi. E fu proprio allora che la paura e la persecuzione delle masche si acuì. Le masche vennero individuate in tutte le donne un po’ diverse, esperte in erbe e pratiche magiche, a volte malate o semplicemente ostili all’omologazione sociale. Le masche, accusate di fare la fisica – una sorta di fattura maligna e pericolosa, una stregoneria – si dovettero sovente nascondere o ritrovare in luoghi di cui la gente portò sempre timore, luoghi già magici o spettrali, di cui si tramandarono fiabe e leggende. Luoghi come il Roc d’le Masche, appunto.








Durante l’Inquisizione la persecuzione delle masche e la paura indotta dalle istituzioni nei loro confronti raggiunse l’apice. Ci furono esecuzioni e torture, molte donne furono impiccate, decapitate o arse vive.
 Per numerose persone fu sufficiente qualche affermazione che potesse destare il sospetto
 di comportamenti non ortodossi per decretarne la condanna o comunque l’etichettamento
 di masca.
Sostenuta anche da paure e superstizioni, la religiosità divenne un’ancora solida nella vita della gente.
 Eccone ad esempio traccia nei numerosi santuari e piloni votivi disseminati un po’ ovunque in montagna. Oltre alla funzione strettamente religiosa servirono per proteggere i viaggiatori dalle minacce
incombenti delle masche.








 Minoritarie rispetto alle masche “domestiche”, esistono anche masche “sovrannaturali”,
 spiriti antichi della Natura e dei boschi che sfuggono l’umano consesso per quanto loro possibile,
e che diventano vendicative e spietate quando disturbate nella quiete del loro habitat consueto.
Questo tipo di masche, pur essendo incorporeo, assume gli aspetti più svariati quando deve rapportarsi agli uomini: o donna vecchia e brutta, o, per contro, giovane bellissima, o animale selvatico etc. etc.
Rispetto alle masche “domestiche” hanno un potere più grande nel controllo del clima:
possono dominare gli elementi e scatenare bufere, grandinate, temporali, nebbie o siccità prolungate.
Al contrario delle streghe, le masche piemontesi non hanno commercio col demonio
e non praticano il Sabba; per contro, non sono nemmeno condizionate, intimorite o controllate dall’elemento religioso; anzi, le masche “domestiche” frequentano la chiesa, vanno a messa e ricevono
i sacramenti come tutte le altre donne della comunità, resta il fatto che poi quasi tutte la leggende
 ( soprattutto nel biellese ) narrano di convegni con il Diavolo...








In alcune località, soprattutto tra la bassa Langa e l’Astesana, accanto alle masche esistono anche i “masconi”, sia pure in numero esiguo. Questi “masconi” hanno ricevuto i poteri casualmente
da una masca in fin di vita, ma non lo possono trasmettere ad altri: ciò spiegherebbe perché le masche appartengono al sesso femminile nella stragrande maggioranza dei casi. Saltuariamente alcune masche o alcuni masconi, oltre ai poteri, dispongono anche del libro del comando, un testo contenente varie formule e incantesimi che ne rafforzano i poteri.
Ad esempio si racconta di masche o masconi che sfogliando il libro del comando in un
 verso o nell’altro potevano leggere il futuro o il passato.
Ancor oggi è di uso comune in Piemonte commentare scherzosamente la caduta “soprannaturale” (accidentale) di oggetti (ad esempio una forchetta che cade dalla tavola), o la temporanea “scomparsa” di oggetti che si ritenevano a portata di mano con l’espressione “A j son le Masche” .








È in questa mescola di credenze, fede e superstizione che si tramandano fiabe e leggende,
di tradizione orale, mutevoli negli anni.
Vonzo è un ottimo esempio di questa cultura, i pochi vecchi rimasti ancora ricordano... Il paese di Vonzo è molto antico. Chi ha occasione di visitare il Museo della Montagna può notare come questo nome
 compaia in cartine del XIV secolo, quando spesso non è citato nemmeno Chialamberto,
 che è oggi il centro principale e Comune. Vonzo infatti giace in una conca molto assolata,
a circa 1200m di quota e invisibile dalla valle. Sarà per questo, si dice, che qui hanno trovato ospitalità da sempre le genti più perseguitate, in cerca di rifugio. Tra le quali, ovviamente, le vere o presunte
 masche, protagoniste di numerosi aneddoti e racconti. Eccone alcuni esempi.
Le masche avevano una notte della settimana preferita per uscire e incontrarsi, praticare i loro riti magici e sabbatici. Era quella del venerdì: in questa notte era bene evitare con cura di uscire dai sentieri segnalati, lontano da santuari e luoghi non benedetti. Stesso discorso per la notte fatata del primo novembre,
 notte in cui le anime dei morti prendevano il volo e le masche si intermediavano con esse,
rafforzando il proprio potere. Si usava, prima di andare a dormire, lasciare sul tavolo un piatto colmo di castagne bollite e già pelate, in modo che le anime dei defunti potessero saziarsi compiaciute senza importunare i vivi. Trovarsi da soli la notte del primo novembre nei sentieri tra i boschi che univano i solitari villaggi alpestri poteva davvero essere pericoloso: non erano sufficienti i numerosi piloni votivi e la più ferrea delle fedi per tenere lontani spettri e masche.









Una fiaba racconta di una persona che si trovava la notte del primo novembre a dover percorrere da sola il sentiero che collegava Vonzo a Chialamberto. Solamente la difesa di un’anima della propria famiglia, che passava di lì per caso, e qualche preghiera presso i numerosi piloni votivi sui lati del sentiero gli consentiva infine il ritorno a casa, tra innumerevoli sentori di oscure presenze, masche e visioni che si animavano nel bosco durante il viaggio.
C’è da dire che non tutti gli spiriti erano cattivi. Ad esempio, lo spirit-fulét si divertiva a combinare innocui scherzi, come muovere i tetti di lose per non lasciar dormire, imbrattare le maniglie delle porte o i muri di pece. Non era cattivo, se nessuno osava interferire con il suo lavoro, altrimenti…
Le masche invece ogni tanto erano davvero cattive. Si dice che una volta rapirono un bambino di Candiela e lo portarono in cima a una acuminata roccia nei ripidi pendii sotto il Soglio (un piccolo insieme di case ad est di Vonzo). Si riunì un gruppo di coraggiosi che tutta la notte seguì le urla del bimbo, senza trovarlo. Solo la mattina dopo, quando la masca svanì, fu possibile individuare la roccia prima occultata da un tenebroso sortilegio. Il bimbo raccontò che tutta la notte una donna vestita di nero, muta, restò con lui regalandogli di tanto in tanto alcune caramelle, per poi sparire sul fare del giorno.
Ma tra le fiabe, la più famosa fu quella che ebbe come oggetto proprio il Roc d’le Masche e il suo magico trasporto fino a Lanzo per soddisfare una bravata ai danni del Diavolo.








Oggi le masche non ci sono più. Gli alpeggi son stati quasi tutti abbandonati e Vonzo è diventato un villaggio turistico. Nessuno si riunisce più nelle stalle la sera per raccontare fiabe, confortevoli carrozzabili uniscono tutti i paesi e gli antichi sentieri non sono più praticati, men che mai di notte. Il Roc d’le Masche è solo una grossa pietra dai curiosi incavi e dalla mole imponente.
Eppure, ancora oggi, qualcuno giura, il venerdì notte, di  aver avvisto…









LE MASCHE PIU’ FAMOSE

Sabrota

In un piccolo paese dell’astigiano, si ricorda ancora la famosa Sabrota, una strega del luogo che per la sua statura era detta “la Longia”. Brutta come solo le streghe sanno essere brutte, Sabrota la Longia è ancora viva nella tradizione del paese, anche se, naturalmente, nessuno sa dire in quale epoca sia vissuta. Dedita ai sabba, pratica di erbe e di filtri, esperta di ogni diavoleria, Sabrota si reca spesso su una radura dove convergono anche le altre masche della valle. I montanari sostengono che sotto quegli alberi avvengano feste infernali e ricordano d’aver trovato molte volte alcuni ciuffi di capelli, un segno evidente delle streghe. Anche Sabrota la Longia si trasforma in gatto: un soldato, di chissà quale epoca, mentre attraversa i boschi del paese in una notte buia viene assalito da un gattaccio dal pelo irto e dagli occhi di brace. L’uomo non si lascia vincere dalla paura e, sfoderata la spada, colpisce il felino a una zampa. Un miagolio straziante e l’ animale scompare. Il giorno dopo il medico del paese deve andare a curare Sabrota la Longia d’una ferita da taglio al braccio.

Naturalmente ognuno la detesta, anche se la teme e pensa che tutti i mali del paese siano da incolparsi alla sua presenza. La strega getta il malocchio: un uomo, venuto a lite con lei per questioni di interesse, la trascina in giudizio e riesce a farla condannare; qualche giorno dopo il primo dei suoi tre figli muore d’un male misterioso e nel giro di poche ore lo seguono i fratelli. Il padre, disperato e armato d’ un falcetto, si reca da Sabrota per vendicarsi, ma nell’atto stesso in cui cerca di colpirla cade a terra tramortito. Quando riprende i sensi è fuori di sé, dà in smanie, è stralunato: si crede un cane e corre per la campagna abbaiando, si crede un vitello e muggisce. Soltanto il prete con i suoi esorcismi riesce a salvarlo. Quando la strega muore gli uomini del paese rifiutano di portare la bara al cimitero. Nessuno osa avvicinarsi; infine tre uomini, decisi a liberarsi da quella dannazione, provvedono al trasporto, ma durante il tragitto si accorgono che la bara è stranamente leggera. Giunti al cimitero la schiodano: è vuota!








Micillina

Figura a metà tra la storia e la leggenda, compagna di Sabrota la Longia, è invece una celebre strega di cui ancora oggi si narra nelle campagne dell’astigiano: la masca Micillina, nativa di Barolo e maritata a Pocapaglia. La sua storia rientrerebbe nei processi per stregoneria, ma la tradizione ne ha talmente trasfigurato i contorni da dover essere annoverata tra le leggendarie masche piemontesi. Vissuta a metà del Cinquecento, Micillina fu effettivamente bruciata come strega dopo un regolare processo. Su di lei vivono ancora molte leggende: uccideva gli uomini fulminandoli con lo sguardo, deformava i bambini, gettava il malocchio, compiva fatture su uomini e animali. Un giorno, mentre discorreva sulla porta di casa con alcune vicine, aveva toccato sulla spalla una bambinetta: il giorno dopo alla giovinetta era cresciuta la barba. In un’altra occasione si vendicò di un ragazzetto del paese che, al suo apparire, preso da comprensibile paura, era scappato: nella fuga il bambino era caduto e quando si era rialzato aveva un piede rivolto in avanti e l’altro indietro.

Il marito, un onest’uomo, lavoratore e stimato da tutti, era in preda alla disperazione: mai avrebbe immaginato d’aver sposato una masca, né i suoi sistemi correttivi, piuttosto energici, servirono a molto. Vedendo che le minacce non giovavano e che la moglie persisteva nelle sue pratiche occulte, decise di scacciarla da casa, dopo un’ultima bastonatura. Micillina vagava pensierosa per la campagna tra Pocapaglia e Bra, pensando a come vendicarsi e infine chiamò il diavolo in suo aiuto. Satana non si fece attendere, apparendo sotto le sembianze d’un cavaliere vestito di nero e la strega gli confidò di volersi liberare di quel marito tanto incomodo.

Fu presto accontentata: il cavaliere nero tracciò sul terreno, senza proferire parola, un ampio cerchio e le ordinò di mettervi dentro un piede, disegnò strane figure nell’aria e pronunciò certe formule magiche. A questo punto Micillina era ormai compagna del diavolo e Satana le disse che poteva vendicarsi. La strega non indugiò, la sua vendetta fu semplice, poco faticosa: si recò al campo Baudetto dove il marito era intento alla raccolta delle mele, diede una scrollatina all’albero su cui l’ uomo era arrampicato e divenne vedova.

Non convolò, fortunatamente, a nuove nozze. Libera dalle pastoie coniugali, Micillina poté dedicarsi alle sue arti, divenendo ancora più abile nei suoi malefici e tutto il paese la temeva, nessuno però osvaa denunciarla. Il suo odio si rivolse sul fornaio del paese, dopo che lo ebbe ammaliato. A quei tempi il forno era comune e il fornaio passava ogni giorno nelle case a prendere l’impasto da porre alla cottura: una mattina l’ uomo la chiamò per tre volte consecutive, Micillina non si fece vedere e la sua casa sembrava deserta. Finalmente comparve tranquilla e sorridente a dichiarare con semplicità che quando era stata chiamata per la prima volta si trovava ancora al ponte di Pavia, presso Pollenzo, dove aveva fatto morire un povero carrettiere, la seconda era vicino a Pocapaglia e alla terza chiamata aveva cominciato a impastare.

Poco dopo, sempre per i suoi sortilegi, anche il fornaio muorì. Quando però la masca deformò un bambino lasciato incustodito, esplose l’ira del paese e dovette intervenire la giustizia: arrestata e condotta sotto buona scorta alle carceri, Micillina confessò le proprie colpe al padre inquisitore e al podestà. Dopo aver fatto atto d’abiura e aver rinnegato i suoi legami con il diavolo, ricevette l’assoluzione dal padre inquisitore il quale le impose, secondo l’uso del tempo, una penitenza da farsi sia spiritualmente che temporalmente. La penitenza spirituale consisteva nell’andare sempre scalza fino alla morte, udire ogni giorno la messa, confessarsi e comunicarsi ogni settimana, digiunare ogni venerdì e sabato e non mangiare mai carne. La penitenza temporale consisteva nel dedicare interamente la propria vita a Dio.

Micillina se la sarebbe cavata forse con una buona dose di penitenze e onesti propositi, ma il braccio secolare fu meno indulgente. Temendo che tornasse alle sue pratiche, ammonito dalle precedenti esperienze, il giudice fu inesorabile: la strega venne condannata a essere impiccata, quindi bruciata e le sue ceneri sparse al vento.

Vuole la leggenda che mentre Micillina veniva condotta al supplizio si sentissero per l’ aria certi orribili miagolii e contemporaneamente il suolo eruttasse alcuni ingarbugliati di refe: voci misteriose invitavano Micillina ad afferarne un bandolo, ma la strega non poteva farlo, stretta com’era dalle catene e guardata a vista da un buon numero di guardie. Quei gomitoli erano gettati dalle streghe e dal diavolo.

Con la sua morte tuttavia non scomparirono le stregonerie; di Micillina era infatti scomparsa solo la parte corporea: il suo fascino e la sua magia rimasero, le sue arti passarono in eredità alle compagne che volevano vendicarla, mandando ogni disgrazia sui contadini di Pocapaglia.

Accaddero fatti misteriosi e terribili: vennero trovate molte chiocce disperse nei campi con miriadi di pulcini che invece del solito pigolio emettevano uno stridore simile a quello prodotto dalla lima del fabbro; per le campagne vagava un ragno viscido e immondo, di dimensioni enormi ma con zampe cortissime, che grugniva come un maiale e fuggiva a nascondersi tra le rocce e i rovi; i montoni diventavano mostri dalle corna smisurate, dal pelo irto e setoloso, e fischiavano come serpi.

Per i contadini non c’era dubbio che dietro tutti questi fenomeni ci fosse la presenza delle masche.

C’è poi un luogo, detto “Bric d’la masca Micillina”, cui non è consigliabile avvicinarsi troppo. E’ un grosso masso cosparso di macchie rossastre; qui, si dice, fu bruciata la strega e le macchie sono state prodotte dal suo sangue che nè la pioggia né il trascorrere del tempo hanno potuto cancellare. Quanto a Micillina, si crede che torni periodicamente sui luoghi delle sue gesta; talora appare sotto forma di gatta famelica, ululando però come un lupo.








Clerionessa

Anche nella storia di Clerionessa, vissuta a Giaveno nei primissimi anni del ‘300, realtà e leggenda si sovrappongono. Maga ed esperta in filtri d’amore, Clerionessa abitava nella torre, oggi detta “torre delle streghe”. Si racconta che un giovane di Giaveno si recò un giorno dalla strega, per farsi dare un filtro d’amore con il quale intendeva conquistare una ragazza. La ragazza bevve il filtro preparato dalla strega, ma morì. Clerionessa fu processata e condannata ad essere murata viva nella torre in cui era sempre vissuta. Trascorsero alcuni anni e finalmente un giorno fu aperta la stanza, dove doveva trovarsi il cadavere di Clerionessa: ma la stanza era vuota, la strega era diventata un fantasma, che ogni notte spaventava la gente con lamenti e ululati.








La Marchesa

Nel Canavese, nei dintorni di Crosaroglio, tra Forno e Levone, abitava ancora nel 1839 una vecchia masca detta “La Marchesa”, il cui vero nome è sconosciuto. Lei stessa dichiarava di essere in buoni rapporti con il diavolo, di leggere nel pensiero e di conoscere ogni pratica magica. Portava sempre al fianco un falcetto e sosteneva d’essere in grado, legandosi una fettuccia a una gamba, di percorrere in brevissimo tempo qualunque tratto di strada. Un giorno, tornando da Volpiano dove era andata a lavorare con altri del paese, disse di essere in grado di tornare a Crosaroglio prima degli altri. I compagni non le credettero e si fermarono a bere all’osteria. Giunti a Crosaroglio, la trovarono nell’orto intenta a zappare; alla gamba aveva ancora legata la fettuccia. Ormai prossima alla morte, la Marchesa cercò qualcuno che sciogliesse il legaccio che le stringeva la gamba; nessuno voleva aiutarla, ben sapendo che in quel modo il potere della strega si sarebbe trasferito sul malcapitato. Finalmente una sua cognata le slegò la fettuccia e divenne una strega.





( Fonti : Cai Lanzo
pagina fb Sei piemontese...)












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venerdì 17 aprile 2015

La storia di Jackson Galaxy. l'alcolista rock salvato dal gatto







E se un giorno arrivasse Benny. Che ti ama ma non lo dimostra,
che ti mette alla prova ogni giorno, che sembra volerti complicare la vita,
ma alla fine te la salva. Da quel giorno Jackson Galaxy, giovane rockettaro sbandato,
con problemi di alcol, droga e depressione, che si guadagna da vivere passando da un impiego
all'altro nella speranza di sfondare come musicista, diventa Il migliore amico dei gatti, come 
scrive nel suo libro.









Il faccia a faccia con il re dei gatti disturbati gli apre un mondo.
L'uragano Benny, con i suoi problemi di bullismo, con il suo aspetto bizzarro il suo modo 
singolare di litigare con la lettiera, fa emergere in Jackson un'energia positiva a lui sconosciuta.
Quel micio così speciale gli insegnerà molto  sugli animali e sulla vita, gli darà la forza
di mettere la testa a posto e lo aiuterà a diventare uno dei maggiori esperti di comportamento 
felino. Una storia che rivela il potere dell'amicizia e dell'amore tra uomo e gatto e un manuale
che spiega come avere cura dei propri mici, come farli andare d'accordo con altri
animali della casa e con tutta la famiglia; come insegnar loro a comportarsi in
maniera corretta e , cosa più importante, come renderli felici. Perchè Jackson diventa
uno psicologo per gatti, che se il tuo cuccioletto peloso ti fa pipì sul letto
viene lì, cerca di capire che succede, ci parla e, spesso, risolve il problema.
Gatti posseduti diventano magicamente micetti disneyani...









L'uomo che sussurra ai felini ha un programma su Real Time che si intitola
"Il mio gatto è indemoniato ". Avete la casa infestata da un gatto disturbato? 
Galaxy accorre e grazie ad un magico mix di ciotoline, cibo ad hoc e goccioline 
omeopatiche, addomestica il felino. O il padrone, poichè spesso
quando gli animali si comportano male, è quasi sempre colpa nostra.









Galaxy racconta le sue dipendenze e la struggente storia d'amore
con Benny, arrivato da lui malconcio, con il bacino fratturato dopo essere
stato investito da un'automobile, e una rabbia incontenibile nel corpicino peloso.
Narra del suo periodo nero, che finisce dopo aver letto l'annuncio di lavoro di un
rifugio per animali e ha un'illuminazione: se con gli uomini non riesce proprio ad avere a che
fare può mettersi al servizio degli animali. Assunto deve occuparsi di cani e gatti
randagi o abbandonati, spesso feriti e spaventati, confrontarsi con la difficile questione
dell'eutanasia ed affrontare i propri limiti e paure.









In America i cani e i gatti randagi nei rifugi hanno 48 ore per trovare un
padrone altrimenti vengono eliminati. La vocazione di Jackson per la cura degli
animali viene messa a dura prova, e non solo dalla barbarie di questa pratica. Così,
mentre
addormenta ed uccide, immagina omeopatie, massaggi, agopuntura e psicoterapia.









Poi arriva Benny che non può abbandonare perchè la sua disperazione è
disarmante. Il gatto è confuso e frustrato, proprio come lui: " Benny ed io siamo entrambi
essere socialmente isolati, poco lubrificati dal punto di vista comportamentale, due dita stessa
mano che sono rimaste impigliate nelle ruote di un ingranaggio enorme;
è questa la differenza tra simpatia ed empatia ".
Quel micio così poco addomesticabile, che poi si ammalerà ( le ultime pagine del libro
sono di straziante dolore ), gli salva la vita.





( Immagini dal web )

Piemontesità

Piemontesità
" ...ma i veri viaggiatori partono per partire, s'allontanano come palloni, al loro destino mai cercano di sfuggire, e, senza sapere perchè, sempre dicono: Andiamo!..." ( C.Boudelaire da " Il viaggio")